Intervista a Ruggero Casacchia

RUGGERO CASACCHIA, PRIMO TECNOLOGO DEL CNR, RISPONDE ALLE NOSTRE DOMANDE SUL TEMA DEL PENSIERO CRITICO DAL PUNTO DI VISTA DI SCIENZIATI E RICERCATORI

 

Dalla ricerca delle fonti attendibili alla definizione delle ipotesi, dalla formulazione di domande alla costruzione dell’assetto di una sperimentazione, il suo lavoro è composto da molteplici passaggi che richiedono di mettere in pratica il processo del pensiero critico. Che cosa rappresenta per lei questo approccio?

Questo è lo stile di lavoro che ho seguito per moltissimi anni. Chi fa ricerca sa che deve seguire una procedura rigorosa nel cercare di sviluppare un’idea, un progetto, o di costruire un programma di ricerca. Per ciò che riguarda le fonti attendibili e la definizione delle ipotesi, quando si inizia un progetto di ricerca bisogna avere una base di conoscenza della problematica che si va ad affrontare, il che vuol dire conoscerne la letteratura, cioè tutti gli articoli di maggior peso, e non solo, su un determinato argomento, perché a tali articoli bisognerà far riferimento nel momento in cui si svilupperà tutto il processo. Il ricercatore non inventa qualcosa di nuovo ogni volta che segue un progetto, anzi, molto spesso si inserisce in un contesto che è stato già sviluppato da altri, e deve dunque conoscere qual è il terreno sul quale si muove. 

Per quanto riguarda la formulazione di domande e la costruzione dell’aspetto della sperimentazione, ebbene, queste sono fondamentali perché il ricercatore deve aver chiaro cosa vuole fare, soprattutto qual è la direzione che la sua ricerca dovrebbe prendere. Secondo me l’elemento di fascino della ricerca di base, che la distingue, per certi versi, da quella applicata, è che quella di base è completamente libera: si può iniziare con una certa idea, con un progetto, ma poi si possono avere anche sviluppi non inizialmente previsti. La cosa più interessante dell’atteggiamento che il ricercatore deve assumere nei riguardi del progetto di ricerca è il dover considerare positivo anche quello che può apparire come un insuccesso, se l’approccio, il metodo, i dati utilizzati non consentono di ottenere il risultato atteso. Dunque il mondo della ricerca è proprio legato all’apertura mentale che il ricercatore deve avere nell’approccio al problema che cerca di risolvere. Tutto ciò è molto legato al concetto di pensiero critico, in quanto porta naturalmente a non arroccarsi su una propria idea e perseguirla ostinatamente per cercare di ottenere un risultato a tutti i costi, ma al contrario, invita a considerare eventuali aspetti di insuccesso, e questo secondo me è molto interessante.

Poi, altro aspetto fondamentale è l’uso del pensiero critico nella metodologia di lavoro, anche in relazione ai dati che possiamo acquisire: in questo contesto è fondamentale il modo in cui vengono ripresi i dati, e soprattutto la capacità di validarli. I dati, che forniscono una misura o la descrizione di un processo, sono generalmente inutili, se presi individualmente; però, se presi in un contesto, come serie di dati, o dati inseriti in un cluster, possono avere un significato, perché possono essere flessioni di un andamento, e dunque possono permettere di costruire un modello, come ad esempio nel caso delle previsioni del tempo o dei modelli climatici, e quindi, al termine di questo processo, possono permettere di arrivare ad una conoscenza. In altre parole, il dato è la base per poter ottenere delle informazioni; naturalmente, non basta il dato singolo, ma occorrono più dati, più misure, e soprattutto dati di cui si conosce il contesto ambientale o sperimentale nel quale sono stati acquisiti. Una volta acquisita questa serie di dati, la si trasforma in informazione, e poi, lavorando ulteriormente su questi concetti, in conoscenza.
Altro aspetto interessante di una ricerca è che, naturalmente, va sottoposta alla valutazione della comunità scientifica. Una volta che il ricercatore ha terminato il lavoro, lo deve poi pubblicare su una rivista peer reviewed, cioè una rivista che sottopone ogni articolo che pubblica alla revisione di due o tre referees internazionali esperti di quel settore, che esaminano attentamente il lavoro presentato. Personalmente mi è capitato, in diverse occasioni, di avere sottoposto dei lavori scientifici a delle riviste e di aver avuto delle critiche molto feroci. Ricordo anche che, di questi due referees, l’uno chiedeva che al lavoro venissero fatte pochissime correzioni, l’altro invece affermava  che fosse completamente da rifare. Anche questo è interessante, perché il punto di vista esterno sul lavoro che noi ricercatori facciamo è quello che fa crescere la nostra capacità di pensiero critico, cioè ci permette di essere sempre molto attenti anche a un punto di vista esterno a noi, a porre noi stessi nella situazione di essere molto critici nei riguardi del nostro lavoro. Questo è un esercizio che il mondo della ricerca impara, ed è estremamente utile e positivo anche nella vita quotidiana.

Se è vero che il pensiero critico è un concetto che ha una derivazione di tipo filosofico, è altrettanto vero che si applica felicemente al mondo scientifico. C’è stato un momento in cui le scienze cosiddette “dure”, come la fisica e la chimica, hanno incrociato il sapere umanistico, in particolare la filosofia, ed hanno iniziato a vedere i processi naturali in modo differente: non soltanto come risultato di un processo che poteva essere modellizzato, ma soprattutto come un processo più complesso che può condurre a risultati inaspettati. Negli anni 60 e 70 si è iniziato a utilizzare e diffondere il concetto della complessità: è stato un passaggio fondamentale per far capire, anche agli scienziati, che molte delle ricerche che venivano analizzate e studiate non potevano essere considerate esaustive, perché i sistemi nei quali noi viviamo, che siano di tipo biologico, o sociologico o altri, sono sistemi complessi, in cui ogni azione di ogni singolo componente ha un effetto su tutti gli altri componenti, con un risultato che non è assolutamente prevedibile. La caratteristica affascinante dei sistemi complessi è che, per poterli analizzare, non bisogna tenere soltanto in considerazione il dato scientifico, ma anche le implicazioni date dalle interrelazioni tra ogni singolo componente. Un esempio abbastanza noto di questo concetto è il funzionamento del cervello, che è costituito da una rete di neuroni; un singolo neurone non è in grado di sviluppare nulla, ma un sistema di neuroni, grazie alle sue connessioni, è in grado di sviluppare una serie di pensieri, e di far funzionare il cervello. Il punto di arrivo di questo processo è lo sviluppo dei processi cognitivi e l’attivazione di quello che noi chiamiamo pensiero critico.

 

Secondo lei si può esercitare il pensiero critico anche fuori da un contesto di ricerca o di studio?

Non voglio dire che chi non ha studiato le scienze o la filosofia non sia in grado di sviluppare dei pensieri articolati, però credo che ci debba essere anche un certo allenamento a sviluppare il pensiero critico. Purtroppo, nella società in cui viviamo, non lo vediamo applicare spesso, in particolare in vari tipi di trasmissioni televisive, talk show e simili: non si percepisce l’abitudine a mettere in discussione le proprie idee, bensì, spesso, il tentativo di sovrastare l’avversario con il proprio punto di vista.
Ora, è vero che ci possono essere delle manifestazioni di arguzia, di intelligenza e di acume a prescindere da uno studio approfondito di carattere letterario o scientifico: io vengo da un piccolo paese in Abruzzo di 5000 abitanti, e ho conosciuto alcune persone anziane che erano molto attente ed intelligenti. Ma, per inquadrare un certo tipo di pensiero in un contesto più vasto, si ha necessariamente bisogno di strumenti che si acquisiscono soltanto attraverso lo studio.

Se poi parliamo di ricerca scientifica, non si può prescindere da una formazione di alto livello: basti pensare che oggi, i ricercatori, per poter essere tali, devono avere come requisito minimo il dottorato, cioè il PHD. Ai miei tempi non c’era: questo non vuol dire che noi fossimo più impreparati dei giovani ricercatori di oggi, ma semmai vuol dire che ora il livello di conoscenza è talmente più elevato che richiede un’istruzione universitaria di livello superiore.

Quindi, io direi che la risposta alla domanda, con tutti i “se” e i “ma” che dipendono dal contesto, è comunque no.

Quel che risulta più difficile a chi non ha passato troppo tempo sui libri è il giudizio sulla credibilità delle fonti di informazione: questo, purtroppo, è uno dei drammi di questi tempi, con il dilagare delle fake news. Perché accade? Perché chi legge una notizia falsa ci crede indiscriminatamente? Perché non l’approfondisce. Il problema nasce dal fatto che andare alla radice di queste informazioni richiede tempo e pazienza, e richiede anche il possesso di strumenti adatti. Perciò io credo che aver studiato all’università aiuti non tanto a trovare lavoro, ma ad aprire la mente, che è comunque utile per l’intera società.

 

C’è un’opera (saggio, romanzo, film, spettacolo teatrale) che consiglierebbe per affinare il pensiero critico?

Il mio primo consiglio è un romanzo-saggio: “La grande cecità”, di Amitav Ghosh, autore anglo-indiano, originario del Bangladesh, che ha scritto diversi libri ambientati nella sua terra di origine. Lo scrittore, in questo testo, si pone il problema del come viene raccontato il cambiamento climatico nel mondo occidentale rispetto al mondo orientale, partendo da una distinzione di base: generalmente nella cultura occidentale prevale la figura dell’eroe, che riesce a sconfiggere i nemici e ad imporsi come figura carismatica. Nella cultura orientale, invece, c’è un rapporto più profondo con la natura, e prevale una narrazione collettiva di persone che vivono a contatto con essa. In questo libro si parla, ad esempio, della regione della foce del Gange, in Bangladesh: una zona dove vivono 50 milioni di persone, circa il 5% della popolazione mondiale, che è detta anche “il paese delle maree”, perché periodicamente, su tutto quel territorio, che ha una consistenza fangosa, possono cambiare morfologia i villaggi e altre strutture umane, a causa dell’impatto devastante delle maree. Tali maree sono aumentate notevolmente con i cambiamenti climatici, ed in particolare ne sono molto colpite le zone costiere. E mentre nella cultura orientale c’è maggiore consapevolezza del cambiamento climatico, anche in ragione di queste sue drammatiche conseguenze, nella cultura occidentale non abbiamo ancora preso in considerazione la gravità del suo impatto. Noi occidentali non pensiamo alle emissioni prodotte dalle nostre automobili, e addirittura, nell’immaginare il futuro, abbiamo ancora in mente l’idea di sfrecciare su macchine superveloci – questo anche a causa della nostra cultura cinematografica. Il nostro problema principale, in materia di cambiamenti climatici, è che se dovessimo adottare delle misure per contenere l’inquinamento, dovremo necessariamente rinunciare a parte del nostro patrimonio culturale. Questo è un punto di vista molto interessante, che difficilmente si sente raccontare, ed è espressione di un pensiero critico diverso dal nostro, che ci ricorda quanto per noi occidentali sia estremamente difficile svincolarci da alcune abitudini, come per esempio quella di prendere l’automobile, o di volare ogni volta che ne abbiamo voglia (gli aeroplani sono tra le maggiori cause di inquinamento al mondo) Insomma, trovo molto interessante questo racconto, in cui l’autore riesce a mettere dentro cambiamenti climatici, cultura letteraria e attitudini dei popoli.

Il mio secondo consiglio è un film del regista inglese Ken Loach, che amo molto perché ha il merito, rispetto a molti narratori, di raccontare da vicino le storie del proletariato inglese. Questo film è uscito nel 2019 e si intitola “Sorry, we missed you”, ed è la storia di una famiglia inglese in cui il marito trova lavoro come fattorino, ma gli viene imposto di avere un mezzo proprio; e per deve chiedere alla moglie di vendere la sua automobile per poter mantenere il lavoro. Tutto questo si svolge in un contesto di vessazioni pesanti da parte del capostruttura, che gli impone dei ritmi di lavoro privi di senso e disumani. Questa storia mi ha veramente colpito, perché spesso non si pensa a ciò che sta dietro il lavoro dei rider e dei fattorini. Le persone che ci portano i pacchi o la cena spesso hanno delle vite molto difficili, e purtroppo le loro sono storie che quasi nessuno ci racconta. Anche conoscere questi punti di vista, secondo me, è un modo per attivare e stimolare il pensiero critico.

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